E' stata ampiamente
dimostrata una stretta correlazione tra i concetti, quasi sovrapponibili, di
TdM (teoria della mente), metacognizione e mentalizzazione e disturbi delle
prime relazioni di attaccamento. In altre parole, fatta eccezione per l'autismo
per cui è stata dimostrata una causa neurobiologica, questi deficit cognitivi e
metacognitivi sono dipendenti dal contesto interpersonale di sviluppo. Vediamo
da vicino di chiarire cosa si intende con le definizioni summenzionate. Mi
piace partire dal concetto di "Egocentrismo cognitivo" coniato da
Jean Piaget in base al quale il bambino piccolo "non riesce ad assumere i
punti di vista degli altri" e assume se stesso come 'punto di riferimento'
cognitivo ed affettivo. Infatti, in ambito cognitivista, l'egocentrismo
cognitivo del bambino ha sostituito il concetto di 'narcisismo primario' di
derivazione psicoanalitica. Ci sono stati poi gli studi sulla Teoria della
mente(TdM) che hanno messo in evidenza come nel bambino, fino all'età di
quattro anni, non sia ancora sviluppata la capacità di riconoscere e
distinguere "gli stati mentali propri e altrui". In altre parole il
bambino piccolo non riconosce all' altro propri contenuti mentali diversi dai suoi.
E' convinto e dà per scontato che gli altri pensino e provino come pensa e
'sente' lui. Tuttavia questa 'cecità' alla mente degli altri lo rende 'cieco'
anche alla propria mente. Non è in grado neanche di prendere coscienza dei suoi
stessi contenuti mentali e farne oggetto di riflessione ed attenzione. Agisce
per "contenuti immediatamente presenti" nel suo "prototipo di
funzionamento mentale". In effetti l'impossibilità di prendere atto dei
"punti di vista dell'altro" non gli consente di "confrontarli"
con i suoi e coglierne analogie e differenze. Tuttavia nel corso
dell'ontogenesi il bambino arriverà a possedere una "teoria della
mente" ovvero ad attribuire agli altri il possesso di "punti di
vista" propri e diversi dai suoi. Ma vi è anche una mancata evoluzione
cognitiva, di origine relazionale, per cui la persona non riesce a superare il
proprio egocentrismo cognitivo e a possedere una "teoria della
mente". Infatti è stato dimostrato che l'evoluzione di una TdM può essere
ostacolata dai contesti intersoggettivi in cui il piccolo cresce e si sviluppa.
Ebbene, questi contesti interpersonali, patogenetici, possono provocare un
arresto nello sviluppo fisiologico di una "TdM" e costituire la
"matrice relazionale" di questi deficit cognitivi. Chi non ha una teoria della mente non conosce
nè l'altro e nemmeno se stesso. Se, come accade drammaticamente nell'autismo
infantile precoce, il bambino che resta “cieco” alla mente dell' altro, allora
sarà “cieco” anche alla propria mente”(Liotti, ’01)”.Lo stesso autore
attribuisce i deficit metacognitivi a contesti relazionali patogeni che si
pongono come un ostacolo al suo sviluppo. Per esempio, nell'ambito di una
relazione sicura la F.d.A. potrà mettere in relazione i suoi comportamenti con ciò che desidera e che pensa oppure chiedere
al bimbo “cosa vuole” o “che cosa pensa”. La comunicazione è fluida senza
omissioni, ipocrisie e manipolazioni. La piena condivisione e partecipazione ai
propri stati mentali nonché la comprensione degli stati mentali del bambino(emozioni,
bisogni e aspettative) fa si che non ci siano “buchi” interpersonali sia sul
piano cognitivo che su quello emotivo. In questo modo il bambino, accettato
come “persona”, è stimolato a vedere gli altri come “agenti mentali” e allo
stesso tempo questi stimolano in lui la percezione di essere un “agente
mentale”, cioè portatore di pensieri, convinzioni, sentimenti e bisogni. Quindi
la capacità di monitoraggio metacognitivo si sviluppa a partire dalla
conoscenza della mente dell' altro e da qui, contestualmente, per analogia e
differenze, imparerà a “leggere” anche la propria mente e coglierla come
contenuti discreti e distinti da quelli dell'altro. Si tratta di un processo
simultaneo e complementare come due facce della stessa medaglia: mentre si
realizza l'uno apre alla possibilità dell'altro. Il bambino per non
risperimentare il dolore e lo spavento legati al comportamento della propria
figura di attaccamento può arrivare a "ridurre la propria attenzione"
agli stati mentali di questa. L'impossibilità di prendere atto dei "punti
di vista dell'altro"(T.d.M.) non gli consente di assumere consapevolezza
neanche dei propri(metacognizione) e sempre per lo stesso motivo: non può e non
vuole pensare che il genitore non lo ami per davvero. Ciò gli causa dolore e
spavento. In tal modo, l'adulto, ex bambino sacrificato alla cecità emotiva dei
suoi genitore, avrà una competenza autobiografica rispetto a proprie esperienze
traumatiche infantili che è indicativa del fatto che il genitore non ha
elaborato il proprio passato(mostrando lacune mnestiche e narrazione
frammentaria). Questo si traduce in un difetto del monitoraggio metacognitivo
rispetto i propri stati mentali e a quelli del figlio. Al fine di non risperimentare tali affetti,
il genitore riduce il proprio campo di attenzione nei confronti del bambino
poiché, immergendosi nelle proprie memorie dolorose, diventa incapace di
cogliere e comprendere gli stati d' animo del figlio”. In pratica l’incapacità
di sintonizzarsi con i bisogni del bambino, dovuta alla immersione nei propri
traumi irrisolti, rende il caregiver ‘cieco' alla mente del bambino, ma anche
alla propria mente per non “risperimentare emozioni negative come dolore e spavento. In altre parole il genitore
riduce selettivamente l’ attenzione sia dai contenuti mentali del
bambino(quando esprimono dolore e spavento) sia dai propri per non rivivere
emozioni negative. Naturalmente chi è 'cieco' alla propria mente non conosce se
stesso e non potrà "pensare sul pensiero" ovvero esercitare un di
controllo metacognitivo sui propri contenuti mentali. Il soggetto adulto, con
un mancata acquisizione di una "TdM", alla stregua di un bambino
piccolo, non riesce ad assumere che l'altro abbia i suoi personali "punti
di vista". In altre parole per questo soggetto tutto ciò che pensa, che fa
e che dice è "assolutamente normale e ovvio"; mentre è quantomeno
"strano" ciò che l'altro pensa, sente e fa. Tutti i disturbi
psicopatologici sono caratterizzati dal mancato superamento dell'egocentrismo
cognitivo ovvero dalla incapacità di acquisire una "TdM" e hanno
disturbi più o meno gravi dal punto di vista metacognitivo legati alla gravità
del disturbo di personalità. Potremmo dire, in altre parole, che costoro non
hanno consapevolezza di Sé, del "proprio punto di vista", né del
"punto di vista degli altri" che è assimilato al proprio in una sorta
di "omogeneità cognitiva" che porta a credere che sia
"normale" e ovvio "pensare a ciò che si pensa". Nell'ultimo
ventennio si è diffuso sempre più, nella letteratura inglese, un altro concetto,
simile ai precedenti, benché più esaustivo; si tratta del concetto di
"mentalizzazione". Possiamo definire la mentalizzazione come quella
forma di attività mentale immaginativa che comporta il percepire e
l'interpretare il comportamento come connesso a stati mentali ed emozionali
come bisogni, desideri, sentimenti, credenze, obiettivi, scopi e motivazioni.
Spesso per indicare il mentalizzare si usano espressioni come:
"partecipare agli stati mentali propri e altrui", "tenere a
mente la mente", "pensare e sentire il pensare e il sentire".
Questo termine, come già detto, è stato introdotto nella letteratura inglese
circa venti anni fa in riferimento a deficit funzionali più transitori
associati all'attivazione di emozioni intense e con conflitti che sorgono nelle
relazioni di attaccamento(Fonagy/Target, 2001). Per esempio, gli psicoterapeuti
necessariamente mentalizzano e inducono i propri pazienti a mentalizzare nel
tentativo di migliorare la comprensione e la consapevolezza degli stati mentali
propri e altrui. All'ambito della mentalizzazione appartiene un altro concetto
noto come "decentramento cognitivo". Con esso ci riferiamo all'atto
di osservare i pensieri e i sentimenti di un soggetto come se si trattasse di
eventi nella mente anziché identificarli come riflessi di una verità assoluta.
Non è un caso che ogni forma di psicoterapia miri al raggiungimento sempre
maggiore del grado di consapevolezza del paziente circa i propri contenuti
mentali e la psicologia cognitiva invita il paziente ad allenarsi a monitorare
i propri contenuti mentali(monitoraggio metacognitivo). In effetti tutte le
scuole di psicoterapia hanno lo scopo di incrementare le capacità metacognitive
del paziente memori dell'assunto freudiano che l'analisi può considerarsi
conclusa con successo nella misura in cui "Il paziente avrà imparato a
mettere l'IO al posto dell'ES". La consapevolezza della propria realtà
emotiva sembra essere di cruciale importanza per il raggiungimento del proprio
benessere psicologico e di un senso di Sé coeso e integrato.
Le relazioni di
attaccamento primarie, quando non sono adeguate rispetto ai bisogni di cura e
di sintonizzazione affettiva del bambino, provocano disturbi nella
"TdM" e deficit cognitivi e metacognitivi più o meno compromessi ma
reversibili poiché non dovuti a disturbi neurobiologici come è stato dimostrato
per lo spettro dei disturbi autistici. In realtà sembrano essere proprio le
emozioni dolorose legate a vicissitudini relazionali sfavorevoli ad essere
causa di dolore, conflitti e relative difese. Ciò provoca deficit cognitivi più
o meno gravi fino ad ostacolare del tutto lo sviluppo cognitivo del bambino con
il mancato superamento dell'egocentrismo cognitivo(magistralmente descritto da
Jean Piaget) e l'acquisizione di una "Teoria della mente". In pratica
nella relazione di attaccamento la funzione di co-regolazione degli affetti,
svolta dal legame di attaccamento, fallisce provocando una disregolazione
emotiva così intensa che l'unica possibilità che il bambino possiede è
l'esclusione difensiva di affetti dolorosi e intollerabili. La necessità di
mantenere la "coerenza interna" di un'organizzazione cognitiva
fondata sull'esclusione difensiva di affetti o "parti" del Sé può
provocare deficit cognitivi e metacognitivi. Il soggetto avrà dei 'buchi' nella
conoscenza di Sé e tali dovranno rimanere per non correre il rischio di uno
"scompenso" o un "crollo" del Sé ovvero delle strutture
centrali e sovraordinate nell'organizzazione di significato personale. Infatti
un sistema cognitivo, pur essendo nevrotico, possiede comunque una sua
"coerenza interna". Anzi, tale "coerenza interna" sarà
tanto più rigida quanto più è nevrotico il soggetto. Questa mancanza di
"alternative" cognitive e comportamentali mettono in luce la resistenza
al cambiamento della strutture cognitive del soggetto.
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