Scriveva Herman Hesse
nel suo volume "Il mio credo": "Io credo che la vita abbia un
senso. Percepisco dentro di me la voce di questo senso nei momenti in cui sono
realmente vivo e perfettamente sveglio". Che questo fosse il senso-tutto
umano-del nostro esserci l'ho scoperto da poco anch'io. Da quando mi sento perfettamente
integrato e liberamente associato, in armonia con me stesso e con gli altri. Si
può dire che non c'è pace tra gli uomini senza che ogni uomo non abbia raggiunto
i suoi personali sentimenti di pace e di benessere interiori. Allora la
'presenza mentale', l'essere 'qui e adesso', il fatto puro e semplice di essere
presenti a se stessi, non sarà più un 'miracolo'- come qualcosa di troppo
difficile da raggiungere-ma un sentimento imprescindibile di radicamento e
sicurezza interiori poiché siamo 'liberamente associati'. Quando parliamo di
'integrazione del Sé' vogliamo far riferimento al sentimento di coesione e
unità del Sé. Motivo per cui non ci sono più 'ombre' o 'lati oscuri' o ancora,
trame recondite da celare a se stessi: si vive pienamente nel momento presente.
Sto descrivendo qualcosa di normale, una 'condizione esistenziale' che dovrebbe
essere propria e idiosincratica di ogni essere umano 'normale'. Ricordo di aver letto un libro di Hartmann,
molti anni fa, in cui l'autore scriveva: "IO SONO questo uomo su questo
pianeta Terra: nudo sono nato e nudo devo morire. Qualsiasi definizione
estrinseca di me stesso non coglie realmente la definizione di me in quanto
uomo. Per poterla formulare non mi devo
ASTRARRE da me stesso, ma semplicemente ESSERE". Ecco. Con buona pace di
tutti i significati metafisici e trascendenti che l'uomo, nevrotico o
'normotico', cerca in un 'al di là' semplicemente perché l'inferno interiore in
cui vive 'non può essere vita'. La vita 'vera' non può essere questa: mortale,
effimera, dolorosa, senza senso. Non di rado, per alcune persone, da questa
"valle di lacrime"(cosi recita la cosiddetta 'novena' della madonna
di Pompei') "Nessuno uscirà vivo di qui"(J. Morrison). Data questa
premessa, ne consegue che, allora 'deve esserci un regno dei cieli': perché non
siamo nati per soffrire nella caducità più totale, senza senso e per di più 'in
cammino verso la morte'. Ma dovremmo convincerci che e' un nostro diritto
vivere una vita appagante su questa terra, nel 'qui e adesso'. Ad impedircelo
sono le nostre nevrosi, le nostre convinzioni irrazionali e la 'tirannia dei
doveri', da cui già' Epitteto ci metteva in guardia. Tutto questo ci allontana
dalle radici più profonde del nostro 'esser-ci', da ciò che ci rende 'vivi' e
'vitali': l'integrazione funzionale tra il 'cervello emotivo' e quello
'razionale'.
Frustrati nelle nostre
aspettative più profonde e più squisitamente umane di accoglimento ed
accettazione da parte dei nostri conspecifici, allora 'proiettiamo' i nostri
desideri di amore rimossi, perché' non riconosciuti ne' condivisi, in un 'al di
là' in cui possiamo metterci tutto ciò che desideriamo. Del resto la Chiesa
cattolica non ci propone la figura di un Dio-Gesù' dall'amore incondizionato
che ci attende a braccia aperte? E non è questo 'amore incondizionato' quello
che ogni bambino si attende dalla sua mamma e dai suoi simili? Basta questa
'illusoria compensazione trascendente' a riempire di senso e di significato la
propria vita. Ma proiettarci in una realtà "altra" ci aliena da noi
stessi e dalla realtà in cui viviamo. E se questo amore incondizionato ci fosse
dato dalle relazioni umane significative alla base della strutturazione di un
senso di Se' sicuro e coeso che poggia sulla forza di un amore interiorizzato
come istanza imprescindibile del proprio essere nel mondo? Come avrete capito
c'è una sorta di 'bisogno di credere' a cui Erich Fromm ha dedicato l'omonimo
libro. In effetti ho notato che per molte persone la religione è un 'surrogato
affettivo'. E lo era anche per me. Se l’alienazione dalle proprie radici vitali
provoca sofferenza, infelicità, vuoto e perdita di senso con conseguenti
dipendenze ‘compensative’, non ultima la dipendenza religiosa, un
riappropriarsi delle proprie radici vitali, l’integrazione tra cervello razionale
e cervello emotivo non può che dischiuderci un rinnovato senso di pienezza e
coesione che si manifesta nel ‘momento presente’. Invece, l’uomo nevrotico,
stressato e sofferente non riesce a “vivere nel qui e adesso” condizionato dal
suo passato doloroso e preoccupato dal futuro: vive all'ombra dei suoi
‘fantasmi interni’. Ma l’unico momento che ci appartiene e di cui siamo sicuri
è ‘ADESSO’. Le religioni costituite sono millenarie perché offrono all’ uomo un
‘surrogato affettivo’ di cui egli non può fare a meno. Ma il prezzo da pagare è
molto alto: la perdita della propria autonomia e della libertà di pensiero,
della propria autenticità più profonda. E tutto ciò allo scopo di continuare a
rimuovere il proprio dolore che, in forme sintomatiche, ritorna sempre. Il
‘ritorno del rimosso’ di freudiana memoria. Il senso della vita va costruito
nell'autenticità delle relazioni impregnate di affetti in questa vita e non
‘differito’ in una ipotetica vita trascendente ‘solo perché non sopportiamo il
non senso della nostra vita’ con la certezza di non aver vissuto questa vita e,
probabilmente, non vivremo neanche quell’ altra di cui si fa un gran parlare.
Del resto del ‘nulla’ possiamo dire tutto e il contrario di tutto: basta la
fede! Siamo noi a dare un senso e un significato alla nostra vita: non c’è il
senso della vita, ma un significato che ognuno costruisce nella progettualità
immerso nella matrice delle relazioni. Sapendo che la natura è madre ma anche
matrigna perché di colpo può abbattersi contro di noi. E tuttavia è necessario
liberarsi del passato doloroso ritornando proprio a quel passato, elaborandolo
più e più volte fino a quando non saremo ‘liberamente associati’, condizione
propedeutica ed imprescindibile di ogni benessere e pienezza. La strada è lunga,
spesso tortuosa, ma val la pena percorrerla. Il traguardo è la pace interiore,
il benessere e la consapevolezza. Senza pace interiore non vi è pace nelle
relazioni interpersonali. Non è vera pace quella che viene raggiunta a colpi di
trattati, accordi e compromessi. E inutile che le religioni 'preghino' che Dio
ci doni la pace. Dio, se c'è, non c'entra un bel nulla. Il male non viene
dall'esterno, incarnato nella figura del diavolo a cui ancora oggi si crede, ma
giace 'sepolto' sotto strati di 'difese' per poi apparire inopinatamente, per
dar vita a gesti inconsulti, improvvisi 'raptus' e stermini di massa studiati a
tavolino. Le radici della violenza, come della nostra personale e cronica
insoddisfazione, si trovano nella rabbia rimossa del bambino maturata nelle
relazioni pregresse in cui l'accettazione e l'affetto 'brillavano per la loro
assenza'. Oggi l'adulto, ex bambino, ha sepolto il suo dolore sotto le sue
difese e la 'credenza religiosa' nel demonio è 'funzionale' al mantenimento di
queste difese....prolungando l'infelicità e la sofferenza umane nonché
l'assurda autodistruzione del genere umano in nome di questo o quel Dio. Certo:
è meno doloroso 'credere al Diavolo' come fattore causale del male nel mondo
che 'guardarsi dentro'. Ma visti i risultati, ne vale ancora la pena? Non
accettare la propria finitudine e il proprio limite significa stravolgere il
senso del nostro "essere umano".
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