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IL PREZZO DELLE NOSTRE DIFESE: IL BAMBINO MALTRATTATO



Siamo giustamente indignati se un adulto viene maltrattato o traumatizzato da un suo coetaneo. Stupri, violenze e prevaricazioni ai danni di persone adulte suscitano il nostro giusto raccapriccio e la nostra riprovazione. Ma non succede lo stesso quando la vittima è un bambino. O meglio: l’orrore è pubblicamente ostentato, ma nel privato i nostri bambini continuano a fare da comodo contenitore delle nostre peggiori pulsioni.
Il fatto è che al di là di ‘rispettabili apparenze’ i bambini continuano ad essere vittimizzati proprio nei contesti in cui dovrebbero essere protetti. Le persone che reagiscono con stupore e disapprovazione di fronte ai casi più eclatanti di cronaca nera che vedono, loro malgrado, i bambini vittime di abusi, sono le stesse che, chiuso l’uscio di casa, diventano ‘normalmente maltrattanti’ nei confronti dei figli. Come se ci fosse una sorta di ‘quantità modica’ di maltrattamenti che possa essere normalmente tollerata ed accettata. L’importante è non esagerare con le punizioni! “Del resto,” sostengono in tanti, “cosa vuoi che sia uno schiaffo, io ne ho presi tanti e mi hanno fatto bene. Vedi; non sono mica diventato un assassino?”. Sono queste le affermazioni con cui i ‘buoni genitori’ danno qualche sberla ‘a fin di bene’ ai loro figli.
Insomma sembra ormai evidente, a chi lo voglia vedere, che i maltrattamenti, la trascuratezza emotiva, l’obbedienza e la cieca sottomissione al ‘dittatore’ di casa sono tutte forme di violenza verso inermi bambini che vengono perpetrate fin dalla nascita nella stessa famiglia di origine. Se non accettiamo la realtà dell’abuso infantile ‘normalmente condiviso’ continueremo a brancolare nel buio e a produrre astruse elucubrazioni sulle origini del male fino a credere che il male faccia parte della natura umana come hanno postulato Freud ed il suo giovane amico dissidente, Jung, per il quale il male era ‘l’altra faccia archetipica del bene’.
Questi presupposti avvaloravano la concezione di un bambino agito da istinti ‘aggressivi’ che andavano ‘incanalati’ da norme e costrizioni culturali mentre avallavano misure ‘educative’ rigide e ispirate a principi religiosi desiderosi di estirpare la ‘gramigna’ dall’animo dei piccoli per innalzarli spiritualmente. La prima psicoanalisi andava a braccetto con i dettami dell’educazione religiosa: del resto, il bambino non nasce già peccatore?
Il fatto è che se non comprendiamo fino in fondo quanto male ci hanno fatto coloro che avrebbero dovuto prendersi cura di noi, se non ne smascheriamo le menzogne, abilmente celate da tutto un sistema sociale di ‘valori’, ‘replicheremo’ quei modelli interattivi appresi e fatti propri in una sorta di ‘autopropaganda non consapevole’. Il che significa che diamo per scontate alcune assunzioni e ‘modi di dire’ assolutamente sbagliati e privi di ogni fondamento. Qualche esempio: “I figli si baciano solo quando dormono”, “Chi ti vuol bene più di mamma, ti inganna”, “lascialo piangere: si liberano i polmoni” e tante altre convinzioni assiomatiche del genere.
Hanna Arendt nel suo libro “La banalità del male” sostiene in modo convincente che l’odio non nasce da innate pulsioni disruttive, ma molto più semplicemente(banalmente) dalla totale assenza di pensiero. L’autrice si chiede come è possibile che migliaia di nazisti obbedissero ad ordini raccapriccianti e disumani, divenendo dei sadici criminali. Sostiene l’assenza di idee, di pensiero. Essi volevano solo obbedire, erano degli ‘automi’ privi di sentimenti e di coscienza per i quali uccidere una mosca o uccidere un ebreo, un omosessuale, un rom era la stessa cosa. Ma da qui a chiedersi da dove venissero questi autentici ‘zombi’, in quali famiglie fossero cresciuti, il passo è breve, ma…era ed è intollerabile, inaccettabile, incredibile!!
Uno psichiatra americano negli anni ’70 scrisse un saggio dal titolo molto eloquente: “La famiglia che uccide”. La prefazione venne curata da Enzo Codignola con l’obiettivo di ‘smussare gli angoli’ affinché venisse accolto dalla cultura psicoanalitica allora dominante di stampo ‘adultocentrico’.
Oggi sempre più evidenze messe in luce dalla pratica clinica nonché da studi sperimentali sulla natura della relazione madre-bambino, soprattutto dai teorici dell’attaccamento nel campo della psicologia evolutiva, sostengono l’importanza della relazione affettiva tra il piccolo ed il suo caregiver come matrice relazionale della sicurezza e personalità del bambino.
Ma, forse, l’ostacolo più grande alla presa di coscienza dei piccoli e grandi orrori che funestano l’umanità fin nelle sue fibre più profonde è la necessità di salvaguardare l’immagine idealizzata dei nostri genitori e la nostra paura di rivivere la paura di un tempo nonché la minaccia della ‘loro’ ritorsione.
Ma fino a quando dovremo ‘sacrificare’ i nostri bambini per preservare la cecità rispetto alla ‘verità’ della propria infanzia?
E, soprattutto, ne vale ancora la pena visto che gli ‘effetti’ di pregresse relazioni maltrattanti e trascuranti sono sotto i nostri occhi?


O forse è più comodo invocare ipotetiche pulsioni e tendenze aggressive innate affinché il ‘vulcano continui a covare sotto la cenere’ delle nostre difese? E i bambini? Saranno ancora e sempre loro a pagarne il prezzo?

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