Che a tutti faccia
piacere sentirsi apprezzati e approvati è umano. E' certamente desiderabile che
gli altri ci valutino in termini positivi. Siamo esseri sociali e le relazioni
e l’intersoggettività costituiscono la matrice dalla quale ogni essere umano
co-costruisce se stesso egli altri. Tuttavia quello che è un fatto
'desiderabile' quando diviene un 'bisogno assoluto', una sorta di imperativo
interno inderogabile, ci rende infelici perché diventiamo dipendenti e non in
grado di sostenere un nostra opinione, se non se non condivisa dagli altri. In tal modo
perdiamo la gioia di essere noi stessi perché sottomessi e proni al bisogno
di approvazione e di accettazione degli altri. Tenere in considerazione il
giudizio degli altri per ritenersi capaci e amabili è come dire: "E' più
importante ciò che tu pensi di me che quanto io penso di me stesso". Ma se
facciamo 'scendere' l'altro sulla terra ponendolo sul nostro stesso piano il
suo giudizio negativo diventa UN MERO PUNTO DI VISTA, rispettabile quanto il
mio, ma pur sempre un 'suo' punto di vista. Inoltre assumere che "tutti
gli altri debbano approvarci sempre ed in ogni occasione" implica una
assurda 'generalizzazione'. Siamo alla mercé delle nostre stesse doverizzazioni
e ciò ci rende intolleranti alle frustrazioni e ai 'no della realtà'. Già
Epitteto, filosofo presocratico, ci metteva in guardia dalla "Tirannia dei
doveri". Infatti nella vita troverò persone che mi apprezzeranno e altri
che invece non lo faranno. La necessità di ricercare affetto e accettazione ci
fa omologare alla massa e ci priva di ogni originalità. Chi di essi ha ragione?
Nessuno: ciascun giudizio è relativo agli assunti cognitivi di chi li esprime.
In realtà il problema del giudizio altrui diventa un problema, quando lo
assumiamo a misura del nostro 'personale valore' perché diamo per scontato di
'non valere niente' cioè di 'non essere amabili'. Quindi conviene capovolgere i
termini della questione: il giudizio negativo dell'altro è temuto perché
conferma e convalida il "PUNTO DI VISTA NEGATIVO CHE ABBIAMO DI NOI
STESSI". Con ulteriore calo della propria autostima e idee depressiva per
la ferita al nostro amor proprio. Nessuno avrebbe il potere di feriti se tu non
glielo dessi a priori! Posto che un 'giudizio' è relativo al soggetto che lo
esprime perché esprime un punto di vista in mezzo a tanti, perché attribuire ai
giudizi un valore 'assoluto?'. Gli altri non sono dei 'padreterni' né sono
migliori di noi. Siamo noi che creiamo 'esseri onnipotenti' semplicemente
perché guardiamo il mondo e la realtà in cui viviamo "dal basso"(in
una relazione agonistica up/down). Se si assume una posizione paritaria il
giudizio degli altri è importante e relativo quanto il nostro. La verità è che
siamo noi ad avere bisogno del sostegno e dell'approvazione degli altri perché
la nostra autostima è molto bassa. Se ci pensiamo bene non sono gli ad essere
così interessati a noi, ma è piuttosto il contrario. Del resto gli altri
possono pensare di noi bene, male o, come spesso accade, non curarsi proprio di
noi. Siamo noi che 'ci sentiamo' sotto il loro sguardo giudicante e valutante.
Perché investire tanto sugli altri, su persone che manco conosciamo? E se
"gli Altri" fossero percepiti non per 'ciò che sono'(semplici
sconosciuti) ma per "ciò che essi rappresentano"? E’ questa La
‘chiave di volta’ del problema. Infatti noi 'plasmiamo' le relazioni
interpersonali sulla base di una "matrice relazionale primaria" che
influenza le nostre aspettative e previsioni. Se assumiamo questo punto di
vista ci accorgiamo che ciò che pensa, dice o fa l'altro non potrebbe
interessarci di meno, se non fosse che, in qualità di 'rappresentanti
simbolici' essi diventano importanti perché 'figure sostitutive' di altri
significativi e delle nostre frustrazioni relazionali pregresse che
'continuiamo a riattualizzare' allo scopo di "soddisfare un nostro
personale bisogno di affetto”. Si tratta della coazione a ripetere di freudiana
memoria. Questa dipendenza dagli altri mina il nostro benessere perché ci
costringere a rinunciare ad esprimere le nostre posizioni per timore di
diventare impopolari. Tuttavia è altresì evidente che non è una strategia utile
perché non facciamo che rinnovare le nostre sofferenze e le nostre antiche
ferite. Si tratta di un sintomo di un problema affettivo pregresso; ed è questo
che va affrontato "per liberarci per sempre dagli altri".
Del resto: ciò che gli
altri pensano sarà pure affar loro, non vi pare? Che cosa c'entro io con quanto
pensano gli altri? Siamo due realtà affatto diverse e irriducibili. Se l'altro
pensa di me in termini negativi o addirittura pensa che io sia un incapace o un
poco di buono o, peggio, mi offende "deve avere le sue ragioni" nel
senso che "E' NECESSITATO A VEDERLA COSÌ", non può che vederla così.
Esso costituisce il 'suo' punto di vista che risente dei suoi valori, della sua
storia pregressa nonché delle sue difese. Una persona che offende in modo
gratuito non è il massimo dell'equilibrio e della saggezza. Soprattutto
"Non è libero" nel suo giudizio e nelle sue valutazioni. In realtà
questa distorsione cognitiva, una pretesa assolutistica e irrazionale,
evidenzia un problema di mancato superamento dell'egocentrismo cognitivo tipico
dei bambini fino ai quattro anni di età. L'adulto e rimasto 'fissato' ad uno
stato evolutivo pregresso perché il bisogno di approvazione e di riconoscimento
non è stato soddisfatto nella fase evolutiva adeguata. Ne risulta che l'adulto,
ex bambino, continua nei rapporti sociali del 'qui e adesso' a portare avanti
problemi e conflitti tipici del 'lì e allora' proprio allo scopo di recuperare
quel riconoscimento che non ci è stato dato.
Il soggetto assume il
punto di vista dell'altro in questi termini: " Io penso che l'altro
pensa". Dimostra di non distinguere i contenuti mentali degli altri dai
suoi e, in tal modo, di non aver superato la fase dell'egocentrismo cognitivo.
Mettere i propri pensieri nella mente degli altri dimostra che il soggetto non
ha ancora una "Teoria della mente" e vede tutto e tutti solo in
funzione dei 'suoi’, propri punti di vista, ignorando quelli degli altri. Per
questa persona tutto ciò che lui pensa, sente e dice è normale e si stupisce
che gli altri possano provare e sentire emozioni e pensieri diversi dai suoi.
Li ritiene "Strani". Perché,
senza rendersene conto, si ritiene il 'centro del mondo'.
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